Come funziona davvero il rapporto tra università e mondo del lavoro



L’università ci fornisce gli strumenti per affrontare il mondo del lavoro o ci approcciamo a questa nuova realtà totalmente privi di know how? Si esce dall’università formati e infarciti di conoscenze, ma spesso carenti sul lato pratico e relazionale.

Quale sarebbe, dunque, una soluzione virtuosa per far dialogare il percorso universitario e il mondo del lavoro, affinché il percorso di studi fornisca una vera e propria “cassetta degli attrezzi” concretamente utile nella vita di professione?

Cosa manca all’università italiana? Il senso pratico

È risaputo che la struttura formativa dell’Università italiana tende a forgiare una classe di laureati con un solido bagaglio conoscitivo, culturale e nozionistico, ma dalla scarsa dimestichezza con la pratica.

Il piano di studi di diverse Facoltà in Italia, infatti, risente notevolmente della mancanza di un approccio pragmatico che possa integrare lo studio teorico, come avviene invece nelle esperienze formative delle realtà europee ed extraeuropee.

Per esempio, i sistemi di istruzione britannici e americani sono improntati su un approccio learning by doing.

In particolare, nell’ambito della giurisprudenza, è piuttosto diffuso lo strumento didattico delle legal clinic, un metodo di apprendimento che coinvolge attivamente lo studente nella gestione delle pratiche legali e in progetti di consulenza tecnico-forense.

Mediante queste e altre metodologie, lo studente è in grado di tradurre in pratica le conoscenze acquisite durante le lezioni e approfondirle grazie alla supervisione di esperti professionisti.

Realtà europee e situazione italiana

Un approccio più pratico è presente anche in alcune realtà dell’Europa continentale. Per esempio, sempre parlando di Giurisprudenza, in Spagna, diversi esami prevedono la risoluzione di un caso concreto, oltre a una prima parte teorica.

Questo approccio didattico consente di preparare una classe di giuristi in grado di districarsi nella risoluzione concreta di casi complessi.

Anche le facoltà di Medicina all’estero consentono a studenti e specializzandi di partecipare attivamente e fare pratica sul campo, tramite un approccio pratico sin dai primi anni del percorso di studi.

Invece, nelle università italiane, è generalmente raro che siano previste attività di questo genere. Le lezioni hanno molto spesso un approccio frontale (più raramente laboratoriale o interattivo).

Gli esami sono finalizzati prevalentemente a verificare la preparazione teorica degli esaminandi, e si svolgono generalmente mediante colloquio orale.

Questo approccio si riverbera fortemente sulle capacità dei neolaureati, che faticano a rendersi appetibili come risorse nel mercato del lavoro, in cui si cercano figure con skill pratiche.

Attività teorico-pratiche nelle università italiane

Vero è che alcuni atenei stanno inserendo nei piani di studio alcune attività teorico-pratiche sotto forma di laboratori, in sostituzione degli esami a scelta.

Tuttavia, la configurazione di queste attività presenta non poche criticità: si tratta di attività facoltative, predisposte principalmente solo per l’ultimo anno, sviluppate sulla base di un monte ore esiguo, e dunque insufficienti alla corretta formazione pratica degli studenti.

Il partnerariato didattico potrebbe essere una strada?

Il dialogo collaborativo tra il mondo delle università e quello delle imprese è di rilevanza strategica per l’innovazione e lo sviluppo del nostro Paese. L’attuazione di progetti comuni è fondamentale per l’attrattività delle università, l’occupabilità degli studenti, la competitività delle aziende, e la crescita socio-economica dei territori.

Le aziende richiedono risorse giovani e qualificate, in possesso di specifiche skill del tutto in linea con l’evoluzione del business aziendale, oltre a solide basi accademiche e conoscitive, in grado di portare valore, promuovere innovazione e miglioramenti alla realtà aziendale.

Allo stesso tempo, un’interazione e un dialogo costanti contribuirebbero enormemente a delineare piani formativi specifici, professionalizzanti e spendibili per i numerosi percorsi degli studenti.

Questa situazione comporterebbe anche, lato aziende, il vantaggio derivante dagli sgravi fiscali, retributivi, contributivi e dai vari bonus per le assunzioni adottati a livello regionale e nazionale.

D’altro canto, la somministrazione dei contratti di apprendistato sembra essere ad oggi, spesso, non molto vantaggiosa per i giovani, in rapporto al compenso mensile e all’ammontare delle ore lavorative e delle responsabilità.

Per dare concretezza agli sforzi già in atto, occorrerebbe una maggiore istituzionalizzazione e un rafforzamento dei rapporti tra università e imprese, con l’interessamento e la partecipazione attiva del Governo e della politica.

La sistematizzazione del partenariato didattico, con una concreta risoluzione degli elementi di criticità, potrebbe essere un investimento strategico per università e imprese, poiché attiverebbe una circolarità virtuosa di saperi e competenze, senza dispersione o frustrazioni.

Infatti, sarebbe importante alimentare continuamente questo scambio di conoscenze e di esperienze, per stare al passo con l’evoluzione delle competenze richieste dal mercato del lavoro, per assicurare alle imprese un contributo di innovazione e ai neolaureati prospettive più percorribili. In questa logica, il dialogo tra dimensione accademica e dimensione professionale e produttiva non può passare in secondo piano.

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